A cura di Giulia Bassi, Mariangela Giglio e Jacopo Romano
Il 10 settembre 1917 nasce a Firenze Franco Fortini (nato Franco Lattes ). I genitori sono Dino Lattes, un avvocato livornese d'origine ebraica, e Emma Fortini del Giglio, fiorentina di religione cattolica.
Il padre viene arrestato con l'accusa di aver collaborato con il gruppo "Non mollare" di Salvemini e dei fratelli Rosselli e da allora sarà sempre sospettato di attività contro il regime. Appassionato di arte e
disegno, il giovane Lattes consegue la maturità classica con ottimi risultati e
inizia il percorso universitario. Nel ’37 inizia a collaborare con «Letteratura» alcune poesie. A fine gennaio
un rapporto su Noventa e il suo gruppo, esito di una delazione, lo denuncia come
aperto oppositore del regime.Assume un incarico come supplente in
un istituto tecnico di Civitanova Marche, che s’interrompe per l’intervento di
un dirigente scolastico che ne denuncia l’ascendenza ebraica. Iscrittosi a
lettere, si laurea con una tesi in storia dell’arte su Rosso Fiorentino il 25
giugno 1940.
Richiamato alle
armi nel luglio del ’41, con il servizio militare ha inizio una serie di
trasferimenti: da Roma a Civita Castellana per il corso per sottufficiali, a
Perugia e successivamente, nel ’42, in Liguria, a Sanremo, a Castiglione
saluzzo in Piemonte (’43) e in Toscana presso Cecina.
A Milano come
sottotenente di fanteria durante i bombardamenti del ’43, Fortini tenta di armare i
soldati contro i tedeschi. Dopo il comunicato
della resa, si mette in borghese e si dà alla macchia come gli altri soldati.
Rientrato a Milano, cerca invano di tornare a Firenze. Decide insieme ad altri
antifascisti di raggiungere la svizzera da Como. Successivamente è trasferito
nel Cantone di Zurigo. Ha avvio una fase intensissima di maturazione e apertura
culturale. Il suo garante e ospite è Alberto Fuhrmann, pastore valdese, la cui
casa fu «una vera seconda università, un momento straordinario». Scrive sei piéce teatrali: tre di queste vengono messe in scena nelle sale da spettacolo
della città. Affronta letture di capitale importanza
(Marx, Serge, Silone). Conosce Cesare Cases, Jean Starobinski, Diego
Valeri, ritrova Adriano Olivetti (conosciuto nel ’38); e inizia a
frequentare, nel 44, la futura moglie, Ruth Leiser. Silone ne patrocina
l’iscrizione al partito socialista e fa avere all’editore Oprecht, a Baden, il
testo di La guerra a Milano; il testo passa la censura ma a
dicembre il ministero nega il permesso di pubblicazione. Collabora a
«l’avvenire dei lavoratori», il periodico della federazione socialista in
Svizzera. Partecipa agli ultimi giorni della Repubblica Partigiana della Valdossola. Nell’estate dopo la Liberazione, torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Milano. Collabora con l’«Avanti!»,
«la lettura», «Italia libera» e «Milano sera» e, soprattutto, con «Il politecnico».
Tra il 1946 e il 1964, Fortini vive anni di intensa attività culturale e politica. Dopo il matrimonio con Ruth a Milano, si trasferisce a Firenze e pubblica Foglio di via per Einaudi. Conosce intellettuali come Sartre, Pavese e Montale e frequenta Bocca di Magra, luogo di incontro per artisti e scrittori. Si dedica a traduzioni di grandi autori, come Brecht, Weil e Proust, che pubblica per Einaudi e scrive saggi, poesie e articoli su riviste come «Comunità» e «Nuovi Argomenti». Nel 1959 cura l’antologia Il movimento surrealista e pubblica il suo secondo libro di liriche, Poesia ed errore. Sono gli anni dei grandi viaggi: visita Germania, Russia e Cina, di cui parla nel reportage Asia Maggiore (1956). Negli anni ’50 si lega a un gruppo di giovani intellettuali e collabora alla rivista «Discussioni». Nel 1961, adotta con Ruth la figlia Livia. Nel 1963 esce una delle sue raccolte più note: Una volta per sempre .
Dal 1965 Fortini consolida il suo ruolo di intellettuale e poeta affrontando temi politici e culturali che anticipano i fermenti del ’68. Nel 1965 pubblica Verifica dei poteri e l’antologia Profezie e realtà del nostro secolo. Seguono L’ospite ingrato (1966) e il discusso I cani del Sinai (1967), in cui esprime un’accesa critica alla politica sionista israeliana. La sua traduzione del Faust (1970) ottiene numerosi riconoscimenti. Dal 1971 insegna Storia della critica letteraria all’Università di Siena, dove, tra gli altri, tiene corsi su Manzoni e Auerbach. Nel 1973 esce Questo muro e l’anno successivo l’antologia Poesie scelte, curata da Pier Vincenzo Mengaldo. Sul piano saggistico è particolarmente importante l’uscita di Saggi italiani (1974). Collabora con il «Corriere della Sera», ma abbandona il giornale nel 1977. Nello stesso anno pubblica Questioni di frontiera, che riunisce scritti di politica e letteratura. Questi anni segnano una maturazione del pensiero fortiniano, confermandolo come figura centrale della cultura italiana del Novecento.
Prosegue con costanza la collaborazione con il «manifesto», ma nel 1979 una polemica con Luigi Pintor allontana Fortini dal quotidiano per due anni. Intensifica il suo lavoro accademico mentre nel 1980 pubblica la plaquette Una obbedienza e i libri di traduzioni Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982) e Poesie di Marcel Proust (1983). Gli anni Ottanta sono segnati da una fertile attività creativa e intellettuale: pubblica Paesaggio con serpente (1984), dedicata a Pier Vincenzo Mengaldo, grazie al quale vince il Premio Montale-Guggenheim. Nello stesso anno escono Memorie per dopodomani e Insistenze. Seguono la traduzione di Kafka, Nella colonia penale (1986), e la raccolta Nuovi saggi italiani (1987). Verso la fine degli anni Ottanta, Fortini rivolge attenzione al proprio percorso artistico e pubblica raccolte retrospettive, come Versi primi e distanti 1937-1957 (1987) e Versi scelti 1939-1989 (1990), che anticipano il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur (1994). Nel 1991 partecipa al progetto teatrale Antigone delle città,diretto da Marco Baliani, con un monologo intitolato Indignarsi è consolarsi. La sua produzione degli anni Novanta culmina in saggi come Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990), Non solo oggi (1991) e Attraverso Pasolini (1993), che raccoglie quarant’anni di riflessioni sul rapporto con Pier Paolo Pasolini. Muore il 28 novembre 1994.
I testi sono stati adattati dalla Nota biografica curata da Luca Lenzini per l'Oscar Mondadori Tutte le poesie.
Mai
una primavera come questa
È
venuta sul mondo. Certo è un giorno
Da
molto tempo a me promesso questo
Dove
tutto il mio sguardo si fa eguale
Ai
miei confini, riposando; e quanta
Calma
giustizia nel pensiero è in fiore
Quanta
limpida luce orna il colore
Delle
ombre del mondo. Ora conosco
Perché
mai dagli inverni ove a fatica
Si
levò questo esistere mio vivo
M’è
rimasto quel nome, che mi scrivo
Su
quest’aria d’aprile, o sola antica
E
perduta e oltre il pianto sempre cara
Immagine
d’amore mia compagna.
Collocata a conclusione della sezione Elegie di Foglio di via e altri versi, «vice veris rappresenta uno dei momenti più alti e riusciti della prima opera lirica di Fortini» (De Luca). Al suo interno, le forze in tensione di Foglio di via trovano un momentaneo equilibrio: «il gelo del passato si risolve nella “limpida luce” del presente, in una figura tutta diurna di resurrezione» (Berardinelli). Il componimento si pone in chiara contrapposizione con E questo è il sonno, rovesciandone i motivi notturni e mortuari e sostituendo all’algida maternità della lirica d’esordio una nuova «immagine d’amore mia compagna».
Edita in Composita Solvantur e su rivista, Sopra questa pietra… è uno dei testi cardinali dell’ultima raccolta di Fortini. L’ambientazione – le vetrate e gli alberi del Trinity Collage di Cambridge – richiama il titolo della silloge: Composita solvantur (letteralmente: “ciò che è composto si dissolva”) è l’epigrafe della tomba di Francis Bacon, collocata proprio nell’Università inglese.
Sopra
questa pietra
posso
ora fermarmi. Dico alcune parole
nello
spazio vuoto preciso.
Le
grandi storie
tentennano
in sonno, vacillano
nelle
teche i crani
dei
poeti sovrani.
L’enigma
verde ride la sua promessa.
Olmi
e oh vetrate di Trinity illuminatevi!
Ecco
il fulmine di giugno.
Batte
l’acquata gronde e guglie.
Lo
spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non
può vedermi più nessuno
qui, nessuno
mi
farà male mai più.
Al
compagno Wang Tong-kieu
segretario
dell’ex Comitato di Partito
gli
operai di un colorificio di Pechino
hanno
detto:
«Un
tempo noi vi si odiava. Ma quello
che
noi si odiava in voi
erano
i vostri errori».
Possiamo
da queste parole
capire
cos’è che distingue
gli
avversari dai nemici?
Noi
abbiamo nemici.
Non
gli errori solamente odiamo in essi
ma
i corpi che li recano.
E
anche avversari abbiamo
e
l’errore odiamo in essi
che
è già stato in noi stessi
o
sarà.
Se
avessero solo avversari
felici
gli operai di Pechino!
Se
potessero essere umani
con
loro e con se stessi
e
spietati solamente con l’errore!
Noi
felici se avessimo a fronte
solamente
nemici.
Le difficoltà del colorificio è edito per la prima volta nella plaquette del 1969 Venticinque poesie, per poi confluire in Questo muro. Si tratta di uno dei componimenti fortiniani che attinge dichiaratamente all’immaginario della Cina comunista. Non è un caso: Fortini fece parte della delegazione che nel 1955 visitò la Repubblica Popolare Cinese, raccontando quanto vide nel reportage Asia maggiore. Viaggio nella Cina (1956). Oggetto privilegiato di discussione con la sinologa Edoarda Masi, di cui è conservato un cospicuo carteggio nell’Archivio Franco Fortini, la Cina è – in Le difficoltà del colorificio e in altre liriche – un mezzo per guardare, dialetticamente, all’Occidente.
Collocata nella sezione Sette canzonette del Golfo di Composita Solvantur, con Lontano lontano… Fortini affronta gli eventi tragici che hanno sconvolto il Medio Oriente all’inizio degli anni Novanta. Ciò che è chiaramente visibile è la dissonanza tra l’oggetto del componimento, la guerra, e il metro, in cantilenanti distici di doppi senari a rima baciata.
Lontano
lontano si fanno la guerra.
Il
sangue degli altri si sparge per terra.
Io
questa mattina mi sono ferito
a
un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando
quel dito, pensavo alla guerra.
Oh
povera gente, che triste è la terra!
Non
posso giovare, non posso parlare,
non
posso partire per cielo o per mare.
E
se anche potessi, o genti indifese,
ho
l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei
sotto il capo dei corpi riversi
posare
un mio fitto volume di versi?
Non
credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo
una maglia, che il sole va via.
Le
scarpe pesanti il gomito sui libri
il
sigaro spento non per il dubbio
ma
per il dubbio e la certezza
nell’ultima
foto
dall’altra
parte del vero
occhi
smarriti guardandoci.
Alle
sue spalle guardiamo i libri deperiti
i
tappeti il legno gotico
del
San Martino a cavallo
che
si taglia il mantello
per
darne metà al mendicante.
Gli
uomini sono esseri mirabili.
Scrive Fortini, in merito a questa poesia pubblicata in Paesaggio con serpente: «Lukács ha forse il sigaro spento non per il dubbio, ma per il dubbio della certezza e alle spalle di Lukács non c’è solo una figura del comunismo, ma una scultura gotica che rappresentava San Martino che dà una parte del suo mantello al povero, che è una figura cristiana. E la mia breve poesia si conclude con una citazione greca, con una situazione di tipo umanistico: “L’uomo è l’essere più mirabile che vi sia, molte sono le cose mirabili in questo mondo e l’uomo è la cosa più mirabile”, mi pare che dica il primo coro dell’Antigone. Forse in quel sigaro spento è contenuta una piccola allegoria: è la diversità del dubbio e dell’amarezza che ci ha impedito di mantenere acceso il nostro sigaro.»
Tra le poesie volutamente più oscure di Fortini, E questo è il sonno, che apre Foglio di via e altri versi,è anche una delle poesie più memorabili dell’opera lirica fortiniana perché racchiude delle sue immagini più ricorrenti e identitarie. L’edera, in particolare, ritorna in altri componimenti di Foglio di via (Di Maiano, Per una cintura perduta nel bosco, ecc.) e in altre sillogi (si veda L’edera in Una volta per sempre). Molti anni dopo la sua composizione (1945), Fortini riprenderà questo componimento in Composita solvantur (1994), citandolo nei primi versi del suo congedo lirico «E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,
E
questo è il sonno, edera nera, nostra
Corona:
presto saremo beati
In
una madre inesistente, schiuse
Nel
buio le labbra sfinite, sepolti.
E
quel che odi poi, non sai se ascolti
Da
vie di neve in fuga un canto o un vento,
O
è in te e dilaga e parla la sorgente
Cupa
tua, l’onda vaga tua del niente.
Stanotte
un qualche animale
ha
ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che
illumina un bel sole
ha
lasciato uno sgorbio sanguinoso
un
mucchietto di visceri viola
e
del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà
dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di
mordere e fulmineo eliminare
dal
ventre della vittima le parti
fetide,
amare.
Vedo
il mare, è celeste, lietissime le vele.
E
non è vero.
Il
piccolo animale sanguinario
ha
morso nel veleno
e
ora cieco di luce
stride
e combatte e implora dagli spini pietà.
Stanotte… è la lirica che chiude la sezione L’animale di Composita Solvantur (1994). Secondo Luperini, «L’ “animale” è la bestia umana. Rinvia a quel “pessimismo biologico e storico” di cui Fortini parla nella premessa di Insistenze. Le cieche pulsioni lo spingono, insieme, al piacere e alla crudeltà (e al piacere della crudeltà). Ma il morso con cui l’“animale” uccide la “bestiola” lo condanna: resterà contagiato dal veleno che già contamina il sangue della sua vittima. Il piccolo dramma ecologico non è che uno spunto: poco più della lettera materiale di una parabola o di un exemplum. Nella verità allegorica del testo uccidere è entrare nel circolo inquinato dell’esistenza»